30.000 metri quadrati addossati alla montagna in un piccolo paesino in provincia ad un passo dalla Francia occupano i resti di una fiorente industria che arrivo ad occupare centinaia di operai.
I binari della ferrovia arrivavano direttamente all’interno della fabbrica.La parte che si affaccia sulla stazione era quella adibita alla produzione del vetro, c’erano due forni, su altrettanti piani, e ampi magazzini per lo stoccaggio delle lastre.
Affacciati sulla strada, al piano terra, c’erano alcuni uffici e dietro la struttura principale erano stati costruiti un laboratorio chimico, che analizzava le materie prime e verificava la qualità del prodotto finale, e una falegnameria, che produceva imballaggi.
La vetreria è stata aperta alla fine degli anni quaranta da un gruppo di vetrai e imprenditori che avevano scelto il piccolo paesino per la sua vicinanza alle cave di silice, uno degli elementi principali per la fusione del vetro.
Dopo alcune difficoltà iniziali la fabbrica ha cominciato ad imporsi sul mercato, arrivando a produrre tra le 70 e le 80 tonnellate di vetro al giorno, per 365 giorni all’anno.
La produzione era a ciclo continuo, non si fermava mai, né di notte né nei giorni festivi. Producevano ininterrottamente lastre di vetro piano che poi venivano utilizzate come finestre o parabrezza di auto. Nel periodo di massimo sviluppo la fabbrica contava 200 operai.
Negli anni 70 con l’ingresso di un nuovo gruppo finanziario nella gestione dell’azienda e per l’impossibilità di rinnovare le linee di lavorazione iniziarono le procedura per la chiusura con lo spegnimento ad uno ad uno dei forni.
Dal 1978 la fabbrica ha chiuso definitivamente e i suoi operai sono stati ricollocati in un altro stabilimento poco lontano.
Nel 2012 il comune ha rimosso l’amianto dei tetti della fabbrica, ora rimangono soltanto le grate a coprire i muri scrostati e corrosi dalla pioggi, la montagna intorno cerca di
Però non tutto è perduto, ho letto che a mantenere viva la memoria della vetreria è rimasta ancora una cinquantina di pensionati che ogni terzo giovedì di novembre si ritrova per ricordare gli anni di lavoro nella fabbrica.
Prima la messa, poi la foto di gruppo nella piazza e il pranzo al ristorante, a due passi dello stabilimento, in cui solitamente andavano a pranzare i dirigenti e i clienti che venivano ad accordarsi per l’acquisto delle lastre. Speriamo che i loro ricordi vengano ascoltati da qualcuno e lo spazio ora in abbandono venga recuperato o riconvertito presto.
COS’E’ L’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE?
L’archeologia industriale è una branca (ramo) dell’archeologia che studia, applicando un metodo interdisciplinare, tutte le testimonianze (materiali e immateriali, dirette ed indirette) inerenti al processo d’industrializzazione fin dalle sue origini, al fine di approfondire la conoscenza della storia del passato e del presente industriale.
Le testimonianze attraverso cui l’archeologia industriale può giungere a questa conoscenza sono i luoghi e le tecnologie dei processi produttivi, le tracce archeologiche generate da questi, i mezzi e i macchinari attraverso cui questi processi si sono attuati, i prodotti di questi processi, tutte le fonti scritte a loro inerenti, le fonti fotografiche, orali, i paesaggi segnati da questi processi e perciò detti paesaggi industriali.
Il periodo studiato dall’archeologia industriale è quello che va dalla seconda metà del Settecento ai giorni nostri, e più precisamente quello della rivoluzione industriale; tuttavia, questa disciplina prende in considerazione anche talune forme d’industria sviluppatesi prima di questo intervallo di tempo, e cioè le attività preindustriali e protoindustriali. Data la sua vicinanza temporale e la tipologia delle materie oggetto di ricerca, l’archeologia industriale si avvale della applicazione di molte discipline per il suo studio, tra le quali: l’archeologia, l’architettura, l’ingegneria, la tecnologia, la pianificazione urbanistica
Comunemente si sostiene che l’archeologia industriale debba riguardare fabbriche, siti industriali et similia relativamente recenti, e in quanto tali non necessitanti delle tecniche comunemente usate dall’archeologo tradizionale. Infatti si dice – che per le conoscenze intrinseche al manufatto, opificio, ecc. – l’archeologia industriale essa sia piuttosto una scienza per ingegneri ed architetti.
È vero, tuttavia, che in certi interessanti e meritevoli casi strutture industriali (officine, opifici, ecc.) siano stati in questi ultimi decenni riscoperti, restaurati e rivalutati in modo da divenire contenitori per centri studi e poli museali (come nel caso dell’ex fabbrica tessile Pria di Biella, al centro negli anni novanta di un progetto di recupero archeologico-industriale da parte di Gae Aulenti o come nel caso della fabbrica Campolmi a Prato che, a seguito di un importante intervento di restauro eseguito dal Comune di Prato su progetto dell’architetto Marco Mattei, oggi ospita il Museo del Tessuto e la Biblioteca Comunale), centri commerciali o espositivi come Le Ciminiere di Catania, ecc., diversamente da come è organizzato un sito archeologico tradizionale. Sotto questo aspetto, è evidente come la mano ingegneristico-architettonica risulti determinante. Esempio di Archeologia industriale a Crespi d’Adda – Patrimonio dell’Unesco – Gli uffici e l’ingresso della Fabbrica Crespi, del 1924, all’interno dell’Ecomuseo dell’Adda. La Fabbrica Alta di Schio, del 1862 Il capannone bramme dello stabilimento Unione di Sesto San Giovanni L’isola di Hashima, in Giappone, completamente abbandonata dal 1974
Esempi di queste ristrutturazioni sono il Lingotto e il Parco Dora di Torino, storico stabilimento di produzione FIAT, il Museo della Gare d’Orsay, ex stazione ferroviaria a Parigi, l’ex zuccherificio di Cecina vicino Livorno.
Si ritiene che l’archeologia industriale possa avere in futuro un sicuro sviluppo. Questo presupposto muove dalla considerazione che tanto in Europa quanto nelle Americhe si assiste ad un sempre maggiore interesse per gli aspetti dell’industrializzazione che vengono – con il passare del tempo – visti in chiave maggiormente storica. Lo stesso rilievo che è dato alla creazione degli Ecomusei come quello sull’Adda, questi spesso sono collegati, nei maggiori centri urbani o nei loro pressi, alla rivalutazione ed alla divulgazione alle giovani generazioni della primigenia fase di industrializzazione conserviera, tessile, metalmeccanica, che contraddistingueva comunemente quelle zone in un passato non ancora remoto.
da wikipedia